Non credo ci siano tanti posti al mondo in cui, durante una conversazione assolutamente casuale ad un tavolo di un bar assolutamente anonimo in quartiere senza grandi pretese di una metropoli, si riesca a passare in pochi minuti dalla ricetta dei calamari fritti alla testimonianza iperrealista e allo stesso tempo surreale su alcuni dei peggiori conflitti armati che hanno sconvolto alcuni paesi negli ultimi anni del secolo scorso.
Succede per esempio a Kampala, brulicante, caotica e soffocante capitale dell’Uganda.
Succede semplicemente perché gli italiani a Kampala non sono tantissimi e ancora evocano curiosità sia sui bianchi normalmente di origine anglofona che sugli africani che si incontrano in un bar in cui il venerdì sera (come da buona tradizione postcoloniale): la “middle class”, sia bianca che locale, si da appuntamento in rumorosissimi e colorati bar con lo scopo più o meno implicito di scolare qualche birra e socializzare.
In questo contesto rilassato capita quindi che un distinto signore originario della Tanzania e un rubicondo sudafricano con un fortissimo accento irlandese vogliano sedersi al tuo tavolo solo perché hanno sentito che a quel tavolo si parla un po’ di italiano, entrambi per motivi diversi si sentono legati all’Italia e vincono, aiutati dalla birra e dal clima goliardico, la loro proverbiale riservatezza “british” per poter parlare un po’ di terre a loro lontane ma in cui hanno passato qualche mese piacevole del loro passato.
La conversazione velocissima passa per i tipici luoghi comuni che ogni viaggiatore assaggia più e più volte durante lo stesso viaggio (cosa lo spinge li, con chi viaggia, quali sono le tappe precedenti e quali le future, bla bla bla) per svoltare incontrollata nell’enogastronomia quando, in cui i miei amici per una sera, scoprono che sono originario di Venezia.
Il sudafricano che sembra un irlandese subito mi sfida chiedendomi se nella pastella per friggere i calamari ci vanno le uova, capisco che mi sta prendendo le misure, e ovviamente mi sta tendendo un trabocchetto, il semplice fatto di non rispondere alla sua domanda ma di fare un cenno con la bottiglia della birra gli fa abbassare un po’ la guardia e comincia quindi a raccontarmi il suo amore per la barca a vela e il suo passato come skipper negli yacht dei ricchi turisti a Cape Town nei primi anni ’70. Comincia a starmi simpatico, anche perché dimostra da subito una spiccata attenzione ecologica, conosce alcune delle emergenze ambientali della laguna accanto alla quale sono cresciuto (ad esempio il problema dell’esagerato prelievo dei piccoli granchi) e le ricontestualizza nel suo orizzonte oceanico che va da Cape Town e Port Elisabeth.
Il distinto signore Tanzaniano invece mi racconta dei suoi lunghi soggiorni sempre negli anni ’70 nelle isole di Cherso durante i suoi studi di economia in Yugoslavia voluti e sponsorizzati dal suo governo, allora socialista, per tutti gli studenti che avrebbero costruito la nuova Tanzania e che per quello dovevano andare a conoscere i loro colleghi cresciuti all’ombra di Tito. Sam, il distinto tanzaniano mi parla di Belgrado e Dubrovnik come se avesse preso l’aereo ieri per lasciare il Mediterraneo e io mi sento quasi obbligato a incalzarlo con qualche altra domanda: mi accorgo che ad entrambi piace raccontarmi delle loro avventure, realizzo che si sta creando quella situazione per cui la conversazione andrà oltre quei luoghi comuni, e una delle cose che determina questa “intimità” sta forse nel fatto che io abbia oggi l’età che loro avevano quando hanno vissuto quello che mi stanno raccontando.
Mi decido quindi, dopo le loro numerose loro domande sull’Italia di oggi, sulla crisi, sulla Grecia, sull’imperituro bunga bunga (quello non se lo scorda mai nessuno) ad informarmi un po’ sul loro conto.
Scopro che non si conoscevano fino a 5 min prima di sedersi al mio tavolo e che un amico comune li ha presentati e poi ha ricevuto una telefonata ed è scomparso nella rumorosa sala biliardo del bar, scopro che Sam il signore della Tanzania è oggi un pezzo grosso di una grossa banca che si occupa principalmente di sviluppo principalmente in Uganda, Tanzania e Kenya, mentre John il sudafricano con l’accento irlandese mi spiazza, è come un colpo allo stomaco, in un istante la mia simpatia basata sui calamari fritti vacilla: è un mercenario in pensione, che arrotonda il suo vitalizio (che non deve essere da fame) commerciando auto importate dal Giappone.
Sono stupito, mi sento un po’ come in un film in cui nel posto più impensato incontri qualcuno che non pensavi di incontrare, mi rendo subito conto che la mia simpatia si basava su elementi troppo superficiali, e su una miriade di luoghi comuni tutti troppo europei per essere applicati ad un venerdì sera in un bar qualunque di Kampala. Forse mi sono anche lasciato trasportare dai racconti di terre così vicine alle mie origini e ho involontariamente avvicinato i miei due nuovi interlocutori all’Europa pur non avendone nessuna reale motivazione. Mi devo piegare all’idea che un simpatico e apparentemente inoffensivo signore sulla sessantina che mi parla di cucina, vino e biologia marina non è per forza una persona simpatica e che la sensazione positiva che ho provato in prima battuta non è abbastanza per definire che io e lui possiamo condividere delle convinzioni.
Poco male, la mia curiosità vince sull’idea di mettere fra me e John una barriera etica per qualche decina di minuti, un pensiero forte si fa spazio nella mia immaginazione e comincio a pensare: quando ti ricapita di star seduto ad un tavolo con un ex mercenario sud africano? Sono personaggi che di solito incroci nei reportage o nei libri sull’attualità o nei testi di storia dell’Africa, ma in quel caso non hanno nome e non hanno faccia. John invece ha una faccia, ha un nome e ti sta offrendo il prossimo “giro”. La curiosità vince. Sempre.
A questo punto però mi chiedo anche cosa pensi Sam, il banchiere, di questa notizia e cerco di cogliere qualche smorfia o segnale nel suo parlare che lo avvicini a me al mio stupore per la professione del nostro compagno di bevute. Purtroppo, non colgo nessuno stupore, nessuna condanna, nessuna rigidità…un’altra dimostrazione di quante sovrastrutture sia necessario abbattere per comprendere un altro punto di vista. Chissà quanti mercenari, “afrikaner”, trafficanti di merci più o meno legali e più o meno pericolose Sam incontri ogni mese, chissà con quanti esponenti di agenzie governative occidentali o cinesi lui abbia a che fare, chissà come relativizza le sue convinzioni più intime quando si rapporta con queste persone ambigue, fumose.
Ritorno con la mente al tavolo e mi lascio trasportare dal racconto di John che ha provato a fare lo skipper a Cape Town ma la carriera militare gli è sembrata più facile, (così dice lui) quindi come quasi tutti i bianchi ha subito ottenuto un ruolo di comando ed è stato inviato in Angola nel ’76 a combattere uno dei conflitti civili più complessi dell’Africa post indipendenza: in un territorio già segnato da molteplici colpi di stato si sono affrontati per quasi vent’anni anni più eserciti regolari (USA, Cuba, Sud Africa, Zaire, Tanzania, ecc.) e decine di gruppi di guerriglieri locali supportati da una o dell’altra fazione con sedicenti origini etniche differenti.
Dopo 12 anni di servizio tra Sud Africa e Angola, John ha deciso di lasciare l’esercito del suo paese e stanco di un paio di tentativi mal riusciti nel business del lodge per i turisti tedeschi in Namibia ha deciso di entrare in una milizia privata come esperto di guerriglia nella giungla, ha quindi passato 6 anni tra Timor Est e Myanmar. Poi, nel 1996 ha accettato un lavoro (e ne parla esattamente come io potrei parlare di un colloquio per una grande azienda del nostro settore) in Bosnia e Serbia. I Balcani, la carneficina che si svolgeva a 200km da casa mia finchè io frequentavo il liceo…di colpo le guerre esotiche di John si spostano dentro i miei confini culturali, non so nulla di Timor Est ma so bene a cosa può assomigliare l’assedio di Sarajevo. Non so da che parte abbia combattuto, non glielo chiedo, sarà stato pagato dagli Ustasha o dai Cetnici? Ma è davvero importante?
In pochi minuti, sempre velocissimi, escono alcuni aneddoti su quasi tutti i conflitti più aggrovigliati, sanguinolenti e deprecabili dal punto di vista dei diritti umani degli ultimi decenni del 20esimo secolo. Lo stesso sudafricano dal forte accento irlandese che poco prima mi stava parlando di calamari e barche a vela ora parla di carri armati e mine anti-uomo di fabbricazione italiana, di scambi di piaceri e di armamenti tra l’esercito Cubano e quello americano, di strani passaggi di “personale specializzato” (mi spiega che così vengono chiamati ancora oggi i suoi ex-colleghi impegnati in Repubblica Centrafricana ad esempio) tra il Mossad e i suoi datori di lavoro, con tono serafico mi spiega che i bombardieri che hanno bombardato Maputo in Mozambico nel 1982 erano aerei Israeliani di stanza in Angola ma che ufficialmente vennero descritti come aerei sudafricani in partenza da Pretoria.
Purtroppo però non sono le sue storie a stupirmi e nemmeno alcuni passaggi geopolitici a cui, a pensarci bene, studiando qualche fonte più dettagliata avrei potuto arrivare anche da solo, non sono le storie di sangue e esplosioni che accenna a farmi venire i brividi, non sono gli aneddoti, anche perché nessuno di questi è verificabile, che mi lasciano a bocca aperta.
Quello che mi ha lasciato sbalordito è il tono con cui John ci racconta per corti flashback la sua vita, non è nè tronfio nè vanaglorioso, tantomeno vergognoso o pentito, non è il tono di qualcuno che è alla ricerca di consenso o assoluzione. È lo stesso tono che potrebbe usare un operaio delle mie parti raccontando i suoi trent’anni, le feste di paese o le vacanze a Cattolica, è il suo tono che mi impietrisce, la guerra è la sua normalità, ha riempito la sua quotidianità per 30 anni, è stato il suo tran tran e come tale ce lo racconta.
Ad un certo punto Sam, il banchiere Tanzaniano, che ho continuato a studiare, senza successo, alla ricerca di un punto di indignazione in comune con me, e che ha sorriso a sua volta agli aneddoti più comici (come se il fatto di scappare ad una mina solo perché si dimentica di allacciare la cintura di sicurezza nel mezzo corazzato in cui si viaggia), dopo aver annuito alle battute sull’importanza dei diamanti per il conflitto in Angola e sulla totale dedizione dei soldati cubani (paragonata alla licenziosità degli eserciti africani), ad un certo punto, dal nulla, Sam, pronuncia un solo nome: Cassinga.
È un nome che per me non evoca nulla, ma mi rendo conto che per entrambi ha un valore e quindi mi cospargo il capo di cenere e chiedo.
In pochi secondi grazie ad un iperbolico paragone europeo (Waterloo) fornitomi da Sam stesso capisco che il 2 maggio 1978 a Cassinga un villaggio nel cuore dell’Angola ha avuto luogo una delle battaglie più truci e decisive del conflitto in Angola.
Ancora qualche istante e realizzo che Sam nel 1978 stava facendo il suo servizio militare, appena rientrato proprio dal viaggio in Yugoslavia e che il suo governo filo socialista aveva appunto mandato alcune truppe di giovani soldati a sostegno delle truppe che combattevano a fianco dei cubani contro l’esercito sud africano in modo che si formassero e che potessero velocemente ritornare in patria a fronteggiare l’attacco perpetrato da Idi Amin, sanguinario e ignorante leader Ugandese, che aveva da poco invaso la Tanzania.
Mi rendo conto di come fra i due scorrano degli sguardi completamente differenti da pochi istanti prima quando sostanzialmente si rendono conto che 33 anni prima in un afoso giorno di maggio avevano combattuto l’uno contro l’altro, probabilmente a pochi metri di distanza condividendo timori e paure, entrambi soldati per un esercito di una giovane Africa che usciva dall’imperialismo europeo per infilarsi nelle lotte intestine per la gestione delle risorse naturali. A Cassinga tutte le fazioni coinvolte nello scontro in campo aperto hanno subito talmente tante perdite (qualche centinaio in totale) che ancora oggi quella data viene commemorata in Angola.
Prima ancora che riesca a preoccuparmi delle possibili evoluzioni di quel momento di memoria amara per entrambi mi rendo conto che semplicemente i due stanno sotterrando il tutto con un sorso di birra e dei sorrisi, Sam aggiunge un serafico “tanto nè io nè te sapevamo cosa diavolo ci stavamo facendo in quel fottuto posto quel fottuto giorno”, John ride sonoramente e rilancia con un “come sempre d’altra parte”. Io riesco a produrre solo una risata strozzata ma penso che avevano forse 25 anni e che porteranno dei pesi più o meno evidenti nel loro inconscio fino al loro ultimo respiro..e mi sento fortunato anche se mi sento terribilmente europeo e pesante a mia volta.
Il punto di massima tensione di quella strana serata era stato raggiunto e sorpassato, nella mezz’ora successiva abbiamo continuato ancora con una birra e ho messo a fuoco che le scorribande in barca a vela di John nell’Adriatico con cui è iniziata la nostra conversazione sono tutte avvenute fra il 1997 e il 1999 nelle barche di uno dei capoccia Ustasha che fra una battaglia e l’altra invitava i “colleghi” a mangiare e bere a bordo della barca di qualche ricco turista forse tedesco che semplicemente aveva “preso in presito” da qualche marina della ricca Croazia.
La mia sensazione di peso sullo stomaco dovuto al tono con cui John parla della guerra e del suo lavoro, (insiste a chiamarlo proprio lavoro), ha una sorta di colmo quando mi dice che tra il 2000 e il 2005 è tornato spesso in Bosnia e Serbia a trovare “gli amici” e “fare affari”. Io ovviamente a questo punto mi chiedo quali siano gli affari e quali siano gli amici di cui mi si parla ma lo stupore va più che altro al pensiero che potenzialmente avrei potuto conoscere John dieci anni prima in uno dei miei primi assaggi di viaggio nei Balcani che ho fatto proprio in quel periodo, mi chiedo come avrei potuto interpretare un personaggio come lui dieci anni fa quando, dopo un corso di Storia dei Balcani mal frequentato all’universita, “Uderground” di Kusturica e un paio di concerti di Bregovich inseguivo quella imprendibile capacità, che tutt’ora mi affascina, dei Bosniaci e dei Serbi di riuscire a “ridere di tutto”…anche della guerra, anche della morte.
Ad un certo punto la conversazione fino a quel momento velocissima comincia a rallentare, a perdere smalto, sarà anche la stanchezza per il continuo interpretare due accenti inglesi così diversi, sarà che dopo un tale ingorgo di pensieri in parallelo alla conversazione non riesco più a seguire tutte le battute e comincio a “ridere per default”, ma è una cosa che non mi piace fare, e quindi decido di cominciare a salutare. In pochi secondi mi congedo da Sam e John: non li rivedrò forse mai più ma mi salutano calorosamente e mentre me ne vado John mi invita ad andare ad assaggiare i suoi calamari nel mio prossimo viaggio in Uganda. Sorrido, non ho nessuna voglia di accettare l’invito, ma sorrido (non saprei che altro fare) e salutandoli in italiano mi faccio risucchiare in pochi secondi dal traffico caotico che sa di olio motore bruciato. Devo attraversare la città a bordo di una vecchia moto enduro che mi hanno prestato i miei ospiti e capisco che non posso concentrarmi su quello che ho appena vissuto, il traffico delle moto a Kampala richiede un alto livello di concentrazione di aggressività per riuscire ad attraversare ogni incrocio. Sospendo il pensiero, sospendo il giudizio e mi getto nel caos notturno.
Al mattino mi convinco che non ho dormito bene quella notte per il caldo, la zanziariera e le zanzare, forse anche per le due birre di troppo…ma credo che il motivo, in fondo, sia un altro.