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La profondità delle crepe sui polpastrelli di Didi, se osservate al microscopio, avrebbero potuto essere scambiate facilmente con una rappresentazione in tre dimensioni della valle in cui viveva, erano crepe maestose, con margini quasi taglienti, erano fatte di lavoro, di terra acida che scioglie le impronte digitali e di polvere, quella polvere che per sei mesi all’anno a sud dell’Himalaya ricopre ogni superficie e aspetta pazientemente l’arrivo del monsone.

Dalla terrazza della casa di Didi, ingombra di pannocchie legate a mazzetti di cinque, si vedeva Annapurna che, si sa, è ben più di una montagna e quindi mal sopporta l’articolo determinativo.

Lei era piegata letteralmente in due nell’orticello di casa, avevo visto dapprima solo la lunghissima treccia grigia uscire da sotto un cappello di feltro colorato e ricamato con i fiori tipici dei templi del buddhismo himalayano. Era una Tamang, il cappello che portava lo portavano solo le donne Tamang e forse aveva l’età per essere nata in quella zona del Tibet da cui nel 1959 tantissimi Tamang tibetani erano scappati e avevano trovato ospitalità nelle zone dove vivevano i membri Nepalesi dello stesso gruppo tribale da cui proveniva anche lei.  

La casa sapeva di umido, non pioveva seriamente da mesi ma l’inverno era stato particolarmente nebbioso, le notti erano ancora rigide anche sotto i 2000 metri, di giorno invece il sole splendeva forte ma la casa aveva pochissime finestre, era fatta di terra e paglia, e all’interno si calpestava terra battuta con sopra uno strato di argilla colorata di rosso che arrivava fino a metà parete sia all’interno che all’esterno della casa. Il resto della casa era bianco e le parti di legno erano di un celeste che ricordava quello di alcune finiture delle chiese delle Cicladi.

Io ero partito per il Nepal nel momento in cui le guide dicono che non ci sarei dovuto andare, non era la stagione del monsone, ma a febbraio l’inverno non sa se vuole finire o no, potrebbe essere molto caldo o molto freddo giù nei fondo valle ombrosi, di sicuro non è piacevole essere in alta montagna, ma poco male, avevo solo quel mese di febbraio per andare in Nepal però in compenso avevo un mese intero per esplorare.

Sperando di fare lo sgambetto all’inverno avevo deciso di restare a sud nei primi quindici giorni di permanenza, per poi spostarmi verso l’est del paese. Avevo noleggiato una moto e avevo in programma di andare piuttosto a caso lungo tutto il confine con l’India. In realtà dopo qualche centinaio di chilometri di una noia mostruosa quel sud fatto di sterminate risaie e paludi mi aveva già stancato. Ero in Nepal non c’erano dubbi ma il panorama, tolto qualche tempio hindu e i sari coloratissimi delle contadine nelle risaie, era quello del Delta del Po, le montagne erano troppo vicine, anche se il cielo color caffelatte non me le faceva vedere, erano troppo grandi per far finta di non vederle e per lasciarsi spaventare da qualche grado sotto zero.

Le due ruote con un motore su cui ero seduto da giorni mi avevano portato fino a Pokhara, poi da li, nella mia arroganza di inesperto avevo deciso di puntare semplicemente a Nord a piedi e con uno zaino come miglior compagno di viaggio.  Sulla cartina topografica comprata in un negozio per turisti sul lungo lago le valli sembravano ampie e facili, c’erano una infinità di nomi di villaggio che si susseguivano, la densità dei villaggi sembrava diminuire solo oltre quello che avevo ricostruito come il limite dei 3000 metri, ma sapevo che per arrivare a quel limite avrei dovuto avere qualche centinaio di euro un più di equipaggiamento invernale o qualche settimana in più.  Sarei andato a nord verso le montagne, e mi sarei fermato prima di combinare guai. Promesso.

Avevo una microscopica tenda con qualche buco ma tanto non avrebbe piovuto, del cibo ( poco perché vedendo così tanti nomi di villaggi mi ero detto che avrei trovato qualcosa ogni giorno) e una cannuccia filtrante per l’acqua che avevo già usato vagabondando per l’Africa e che aveva fatto sempre il suo dovere.

Ero partito, e i due giorni che avrebbero seguito questa decisione passarono veloci tra momenti comici in cui finivo col far ridere i Nepalesi che incontravo poiché chiedevo indicazioni per villaggi che c’erano sulla carta ma che in realtà non esistevano o erano scritti con nomi sbagliati. I momenti comici si sarebbero alternati a momenti di  pungente fastidio verso me stesso per aver sottovalutato così tanto quelle montagne così maestose da sembrare accoglienti e semplici. In realtà quelle montagne erano sempre più maestose ad ogni passo che facevo verso di loro ma di semplice non avevano assolutamente nulla.

L’orgoglio mi rendeva difficile l’ammettere che mi ero fatto lo sgambetto da solo per aver preso tutto sotto gamba e la netta sensazione di non voler chiedere aiuto a quelli che incontravo diventava sempre più presente. Mi pareva di disturbare: io in fondo stavo giocando, loro stavano vivendo, io ero nella mia opulenza occidentale (anche se moderata e pur sempre rispettosa), loro erano alla fine di un inverno freddo, in uno dei paesi più poveri del mondo.

Ero arrivato, stanco e infreddolito, davanti alla casa di Didi perché mi ci avevano mandato dal villaggio prima, una notte in tenda era stata sufficiente, avevo scelto una delle poche valli in cui non passavano tanti turisti e Didi aveva una specie di guest house nei mesi in cui arrivano così tanti turisti nella zona di Annapurna che qualcuno rimbalzava fino a li da lei.

Quando avevo visto una specie di insegna scritta con un pennello su un vecchio pezzo di lamiera che portava il nome della guest house fra due fiori di loto che un bimbo di 10 anni avrebbe disegnato meglio mi ero sentito subito meglio, ma la vera meraviglia era stata per la lunga treccia dei capelli di Didi, e per lei che, dall’altezza del suo abbondante metro e trenta stava in piedi nel suo orticello curato con una attenzione che solo una brava persona avrebbe potuto metterci.

Avevo chiesto una stanza: nel suo inglese e con la sua testa che si piegava ripetutamente a destra mi aveva fatto capire che potevo passare la notte li, ma che non aveva nulla da darmi da mangiare per un ospite (la parola occidentale era implicita), avevo accettato senza indugi non avevo fame e comunque se mi fosse venuta fame avevo ancora qualcosa da sgranocchiare nello zaino, quello che volevo era un letto, e lo volevo possibilmente subito.

I Nepalesi di montagna non hanno una grande passione per le chiacchere, soprattutto se sta arrivando veloce la sera e con lei il freddo. Didi mi aveva fatto cenno di seguirla e mi aveva fatto vedere la stanza, avevo appoggiato lo zaino, quello era tutto quello di cui avevo bisogno.  I soffitti erano davvero bassi per me, c’era un materasso sopra una stuoia, e uno sgabello coloratissimo fatto con due pneumatici di bici usati e un intreccio di plastica e bamboo. Uscendo dalla stanza aveva detto solo “toilet“ indicandomi una porticina dall’altra parte dell’orto.  Era uscita, socchiudendo la porta alle sue spalle. Aveva fatto due passi ed era tornata indietro bussando, aveva riaperto lentamente la porta e aveva sussurrato con un’espressione seria “not good” mi ero bloccato pensando di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma non mi pareva, mi ero tolto le scarpe prima di entrare quindi avevo già escluso l’errore più grossolano ma forse ignorando un pezzo di galateo nepalese avevo fatto qualcosa che non avrei dovuto.

Avevo risposto quindi con una domanda a monosillabi e mi guardavo attorno cercando cosa fosse “not good” e lei si era sciolta in un mezzo sorriso capendo il malinteso e aveva detto “ not good no eat”. Non sarebbe stato facile spiegarle a monosillabi che ero incazzato nero con me stesso e che la seccatura mi aveva chiuso lo stomaco, che avrei mangiato forse qualcosa dopo ma che ora avevo sonno e solo voglia di stare disteso, quindi optai per toccarmi la pancia con la faccia stralunata anche se il mio stomaco non aveva nessun problema e sicuramente non sarei corso volando sopra l’orto verso la porticina magica. Quel gesto mette subito le cose in chiaro in tutto il mondo, e se hai bisogno di privacy te la garantisce per qualche ora, al costo di fare una brutta figura.

Aveva sorriso, mi aveva detto qualcosa in nepali ed era tornata, stavolta davvero, alle sue cose. Io mi ero steso vestito sul letto, dopo aver recuperato il sacco a pelo che non avevo nemmeno aperto ma mi ci ero messo sotto. In realtà non credevo avrei dormito se non molto più tardi e quindi non avevo nemmeno chiuso la porta della stanza, ma mi sbagliavo.

Mi ero svegliato dopo un tempo che potevano essere pochi minuti o dodici ore, non era buio ma la luce non era quella del sole, nella stanza però non ero solo.

L’ottundimento dovuto ad un riposino inaspettato era finito di colpo quando mi ero reso conto che a pochi centimetri dalla stuoia c’era Didi, e c’erano le sue mani con le crepe maestose intente in qualcosa che non avevo capito subito, perché subito mi ero chiesto cosa stesse facendo.

La velocità con cui stava pelando delle patate bollite piccolissime che prendeva direttamente con le mani da una piccola pentola a pressione fumante non rientrava tra le cose che mi sarei aspettato facesse, erano passati pochi secondi dal mio risveglio confuso, ero passato da un senso di stupore ad un senso di minaccia, ad un senso di tepore e di sorpresa in una successione cosi rapida che l’immagine di quelle crepe nerissime nelle mani di quell’anziana Tamang mi si sono stampate fra le prime e più vivide immagini nella collezione sconfinata di fotogrammi preziosissimi che ho raccolto in quasi dieci anni di viaggi in Nepal.

Didi si era seduta accanto al mio letto, mi stava pelando delle patate che aveva cotto a vapore nella sua piccola pentola a pressione coperta di argilla come fanno i nepalesi che ancora si preparano il cibo sulla brace, aveva aspettato che mi svegliassi e, senza dire niente, e mi aveva passato il piatto con le patate con sopra un po’ di sale e aveva messo accanto al letto una tazza di te, mi aveva sorriso ed era uscita.

Mi sentivo fortunatissimo e terribilmente stupido, avevo provato a fare il  furbo con l’Himalaya e l’Himalaya mi aveva regalato un letto e un piatto di patate lesse.

Didi era uscita, non era educazione nemmeno in Nepal guardare qualcuno che mangia, io avevo gustato le patatine pelate da quelle mani tutte bitorzolute come se fossero la cosa più buona che io potessi desiderare, mi ero chiesto se alzarmi e andare nel buio a cercare Didi per ringraziarla ma ho realizzato che la mancanza di una lingua comune e l’ora tarda l’avrebbe messa in imbarazzo, ho pensato che l’avrei fatto al mattino.

L’indomani ero pronto per scendere a valle, continuare a fare il furbo sarebbe stato davvero sconsiderato, Didi era già nell’orto mi aveva preparato un conto in rupie, erano molto meno meno di 5 euro, si scusava perché non aveva nulla per colazione.

Dopo aver pagato il triplo del conto, per non essere sbruffone e perché di più sarebbe stato rifiutato ma pensavo che avevo ricevuto una delle più meravigliose lezioni sull’ospitalità da una collega molto più esperta di me per soli quindici euro e con il risveglio con vista su Annapurna, ero davvero, davvero un uomo fortunato e avrei voluto abbracciarla di gratitudine.

Mi ero limitato a chiederle come si chiamasse pronunciando il mio nome e indicandomi, e poi indicando lei con la faccia a punto di domanda.

Lei prima aveva riso ripetendo il mio nome e mostrandomi gli unici due denti che la povertà non le aveva ancora rubato e poi aveva detto un qualcosa di impronunciabile. Ci avevo provato ma ne era uscito un’accozzaglia di sillabe che l’aveva fatta ridere ancora e più forte di prima.

Aveva riprovato indicandosi e dicendo Didi.  Didi, non c’era dubbio, doveva essere l’abbreviazione del suo nome impronunciabile dal turista fuori stagione piuttosto maldestro che ero diventato. Pur essendo partito con la voglia essere un esploratore avventuroso ero miseramente ricaduto nello stereotipo del fanfarone che si scontra con l’Himalaya.

Nei giorni successivi avevo capito, raccontando questa storia a dei nepalesi, che in nepalese barba si dice “dari” e quindi nel mio tentativo di presentarmi io stavo dicendo in nepalese che avevo la barba, il che era piuttosto comico non c’è dubbio, ma soprattutto avevo capito che Didi non era il suo nome, ma che Didi è il modo più informale con cui un uomo giovane chiamerebbe la sua sorella maggiore. Anche se spesso i frequentatori più habitué al nepal chiamano Didi tutte le donne, non è proprio una cosa che alle donne nepalesi fa piacere, bisogna avere un minimo di conoscenza pregressa qualcuna per poterLa chiamare Didi e lei, un’anziana e rispettabile contadina Tamang, me lo aveva concesso.

L’avevo fatta ridere, tanto, e lei si era presa cura di me.