marocco

Asmae viveva in una di quelle case squadrate, fatte di blocchi di cemento spesso non intonacati che stanno più o meno in tutte le periferie dal sud della Grecia, al sud del Marocco fino all’Asia centrale e a volte anche oltre.

Casa di Asmae era in un piccolo villaggio ai margini della bassa valle del Draa, da piccola se nessuno glielo avesse detto, non avrebbe mai immaginato di vivere in quella che era stata per secoli una delle zone più ricche del nord Africa, lungo quella valle erano passati, sin dalla Preistoria, popolazioni con velleità di invasione, di conquista, ma soprattutto erano passate decine di generazioni di carovanieri: da casa di Asmae passava la via più facile per far arrivare da tutto l’Erg occidentale le sue preziose materie prime e le mercanzie fino a Marrakech e poi fino all’Oceano.

Quel piccolo fiume che ora passava a poche centinaia di metri da casa sua, e che non era differente da molti altri oued nella ragione, pieno di rifiuti di plastica e con qualche sparuta palma poco curata, era stato uno dei fiumi più rigogliosi del Marocco, poiché raccoglieva le grandi piogge stagionali e lo scioglimento delle copiose nevicate che ricoprivano le cime più alte dell’Atlante.

Il Draa scorreva copioso dall’Atlante, rimbalzava sul deserto tra Zagora e Mhammid el Gizlane per poi continuare la sua corsa verso l’oceano Atlantico molto più a sud.

Negli anni ‘60 sulla scorta di vecchi progetti coloniali e per favorire una delle riforme agrarie volute dal Regno appena diventato indipendente, alcune dighe avevano ridotto drasticamente il suo flusso. La valle di Asmae, che aveva già vissuto una grande crisi alla fine della grande epoca delle carovane si era vista togliere così anche gran parte delle sue velleità agricole e si era svuotata. Il millenario ecosistema dei Palmeti da dattero che avevano dato ombra, cibo e benessere a tutti gli abitanti della valle era stato decapitato, il più grande palmeto del nord Africa che misurava decine di kilometri quadrati di estensione nei pressi di Zagora era stato condannato ad un lento declino e con lui tutto il sistema delle oasi di montagna.

Qualche anno dopo, alle carovane e ai datteri si erano sostituiti i torpedoni dei primi turisti, il Marocco era un paese pacifico, molto meno chiuso culturalmente di altri paesi del nord Africa, i Marocchini erano capaci di far sentire a loro agio chiunque e il sogno del poter ripercorrere la prima parte della lunga via che per millenni aveva collegato Marrakech a Timbouctou aveva attirato intere generazioni di viaggiatori, di turisti. Il poter toccare con mano quel famoso cartello che stava alla porta del deserto e recitava ineluttabile “Timbouctou 52 jours” era diventato un feticcio per molti. Una grandissima parte di quei molti passava per la valle, e il nonno di Asmae era riuscito a racimolare con i parenti emigrati in Francia il denaro e le capacità necessarie per aprire una piccola locanda che sorgeva a ridosso del vecchio Ksour, il vecchio nucleo fortificato del villaggio che per millenni aveva ospitato carovanieri alla ricerca di un caravanserraglio per mettere al sicuro merci e dromedari.

La locanda di Omar era una copia di una antica casa fortificata, con i quattro torrioni ben marcati sulle facciate, le finestre piccole e verticali, i merletti dipinti di bianco nella parte alta, non era fatta di fango e paglia come il villaggio vecchio ma in laterizi  e intonaco cementizio , per ogni camera c’era un bagno, rudimentale ma privato, le due mogli di Omar si alternavano in cucina, il grande numero di figli e figlie, senza nemmeno l’idea di cosa fosse un contratto di lavoro, si dava da fare e faceva funzionare la “Kasbah chez Omar”.

Della vecchia locanda oggi non restava molto, i figli maschi di Omar avevano goduto del benessere relativo del padre e grazie anche all’esposizione continua ai turisti internazionali avevano deciso di prendere la loro strada: uno ora aveva qualche decina di fuoristrada di stanza a Marrakech e organizzava gite banalissime nel deserto di poche ore che però gli rendevano molto, l’altro figlio se n’era andato a Nantes, seguendo una giovane turista francese, si lamentava del freddo ma in realtà non sarebbe mai tornato.

Asmae era la figlia di una delle figlie femmine della seconda moglie di Omar, del patrimonio accumulato negli anni ‘70 e ‘80 da Omar non le era arrivato nulla, se non il profumo lontano del benessere sotto forma di qualche pezzo di arredamento più sfarzoso e qualche foto di un sorridente e baffuto nonno con qualche personaggio famoso del jetset che passava negli studios del cinema di Ouarzazate. Forse però la più grande eredità di Omar non era misurabile in denaro:  lui era stato il primo della sua generazione a uscire dal villaggio: aveva portato nel villaggio la prima locanda per turisti ma soprattutto aveva potuto godere del privilegio, dovuto al suo status economico, di poter crescere la sua famiglia in un ambiente tollerante, laico. Da vecchio, prima di passare a miglior vita era stato fra i pochi nel villaggio a sostenere le scelte laiche del giovane re Mohammed IV, che si era addirittura sposato con una donna che non portava il velo.

Asmae appena diventata maggiorenne, avrebbe potuto andarsene, la famiglia abituata ad una generazione intera di migranti avrebbe capito e non l’avrebbe ostacolata, lo zio a Nantes avrebbe potuto accoglierla, ma aveva scelto di restare, di non partecipare alla grande corsa verso Nord, all’inseguimento del miraggio del benessere occidentale, aveva deciso di restare e di studiare.

Solo dieci anni prima il Regno di Mohammed IV aveva riconosciuto ufficialmente la lingua degli abitanti originari del Marocco, l’alfabeto Amazigh era andato perso nei quasi 1500 anni di dominazione araba sulle popolazioni originarie del Marocco, la lingua di quelli che noi chiamiamo Berberi, era stata trasmessa in modo orale e spesso clandestino, dagli abitanti dei villaggi più isolati dell’Atlante ed era ancora viva. Come tutte le lingue a cui era stato tolto l’alfabeto viveva mutilata, non poteva rinvigorirsi, sarebbe forse finita in un museo o in una registrazione di qualche etnolinguista canadese.

Dopo il riconoscimento ufficiale della lingua Amazigh si era deciso di prendere l’alfabeto della lingua vivente più vicina: I Touareg erano un ramo delle popolazioni Amazigh che prosperavano nel nord Africa fino all’invasione araba, la loro lingua era molto simile all’Amazigh del Marocco, e soprattutto il loro alfabeto era ancora esistente e vivo.

Il trapianto era possibile, complesso ma possibile, bisognava prendere l’alfabeto Touareg e trapiantarlo nella lingua Amazig.

Asmae aveva deciso di collaborare a suo modo alle terapie anti rigetto per il salvataggio della sua lingua: aveva deciso di restare e di studiare per diventare insegnante di Amazigh.

Accanto alla vecchia locanda, dove ora sorgeva un punto vendita di cellulari di seconda mano, la sua famiglia aveva costruito la casa squadrata in blocchi di cemento, che si affacciava ancora sul vecchio villaggio fortificato. Asmae aveva poco meno di 20 anni, e spesso guardava dalla finestra il vecchio Ksour, il vecchio villaggio fortificato in cui erano nati e vissuti i suoi nonni.

Il villaggio era un dedalo di piccoli passaggi, di case addossate le une alle altre, di soffitti fatti di legno di palma e intrecci di rami di pioppo tremulo, i muri erano fatti di fango argilloso impastato con la paglia e fatto fermentare prima di essere messo in posa, erano muri spessi almeno mezzo metro, e man mano che si aumentava l’altezza delle strutture lo spessore dei muri diminuiva, i tetti erano piatti e le finestre piccolissime.

Era il clima che determinava la costruzione delle case in cui vivevano gli uomini, era così in tutte le zone del mondo, ed era così anche per la valle del Draa, quelle case dovevano proteggere dal calore soffocante che arrivava dal Sahara ma anche dal gelo pungente che arrivava dall’Atlante, sorgendo in una zona di passaggio così frequentata dovevano proteggere chi ci viveva dalle invasioni e dai saccheggi e non da ultimo dovevano essere elastiche per dondolare come palme sotto le scosse dei frequenti terremoti che colpivano la zona.

Da quando era piccola il villaggio fortificato era cambiato molto, si ricordava ancora quando pochi anni prima l’ultima vecchissima signora che viveva nel villaggio era stata portata via “les pieds devant” come dicevano i francesi, e poi per giorni alcuni dei suoi eredi erano andati alla ricerca di tutte le capre che si erano disperse alla morte della loro proprietaria.

Si ricordava anche come da piccola durante i mesi più caldi fosse ancora una usanza di tutte le famiglie il ritrasferirsi nelle case dei nonni che non avevano alcuni confort come il bagno in casa ma dentro le quali si poteva godere di quel fresco che solo i muri di fango e i profondi camini di aereazione potevano garantire quando la temperatura esterna toccava i 50 gradi all’ombra.

Il vecchio villaggio fortificato ormai era disabitato, e cadeva letteralmente a pezzi, dopo ogni inverno alcuni muri secondari si sbriciolavano, i bastioni perimetrali di alcune case e il vecchio granaio comunitario erano più simili a dei giganti castelli di sabbia su cui sia caduto un acquazzone improvviso piuttosto che a quei baluardi di protezione e potere che erano stati.

Per tutta la sua infanzia Asmae aveva pensato che il vecchio villaggio si stesse sciogliendo, che le case, gli ksar, gli agadir, i vecchi e polverosi cunicoli seminterrati che lei e i suoi cugini percorrevano giocando fossero vittime di una strana maledizione per cui la pioggia avesse trovato il modo di attaccare quelle antiche case corrodendone la struttura fino a farle cadere un granello alla volta senza nemmeno fare rumore. Lei non lo chiamava più il villaggio fortificato, lo chiamava “le case sciolte dove vivono i vecchi”, e davvero non capiva come fosse possibile che per anni centinaia e centinaia di turisti ogni anno avessero soggiornato nella locanda di famiglia per poter fotografare e visitare da vicino un tale sfascio, una tale debâcle del panorama.   Il villaggio fortificato era ormai molle, polveroso, puzzava di pipì di capra, e di immondizia, e tutto si scioglieva davanti ai suoi occhi.

Solo qualche anno dopo, aveva capito che il villaggio non era vittima della pioggia, ma dell’abbandono, della mancanza di manutenzione che lo aveva reso forte e impenetrabile per centinaia, forse migliaia di anni. Ogni anno il fango e la paglia che erano stati amalgamati da mani sapienti decine di generazioni prima, richiedevano, in cambio della protezione che offrivano contro il caldo, il freddo e le invasioni una lunga e complessa manutenzione. Ogni abitante del villaggio era tenuto a riparare le piccole falle nei muri, a convogliare al meglio gli scarichi pluviali, a ripassare l’intonaco nei punti in cui le crepe erano troppo vistose, ma ognuno, pensando al senso di protezione totale che ricavava dal villaggio non si perdeva di animo e si metteva di buona lena.

Il villaggio non era stato assolutamente vittima della pioggia ma di due intere generazioni che di colpo erano mancate nella valle, le mani sapienti che riparavano i muri di fango erano andate a costruire case in Francia, in Italia, in Belgio. Per quasi quaranta inverni nessuno aveva più abitato nel villaggio anche perché rinunciare al bagno in casa o al segnale del cellulare per qualche giorno come lo faceva lei da bimba in piena estate era divertente, ma vivere nel vecchio villaggio era complesso, scomodo e come anche aveva fatto la sua famiglia, tutti avevano preferito costruire quelle case squadrate fatte in anonimi blocchi di cemento e con tetti di lamiera che meglio si adattavano alla vita moderna.

Il villaggio non era vittima di una maledizione, quello che lo stava sciogliendo non era la pioggia, e nemmeno una maledizione ma l’abbandono, la mancanza di mani sapienti. Erano state le scelte efferate dei Francesi e poi dei governanti locali, era stato il fatto che non c’erano più invasioni da cui difendersi, e che le merci passassero ormai altissime nel cielo piuttosto che lungo interminabili piste di sabbia nel deserto.

Ad Asmae non interessava  più essere la soluzione alle case che si scioglievano, ma voleva poter contribuire a far si che ci fosse un legame culturale e linguistico forte fra quella nuova antichissima lingua e il millenario mescolarsi di genti, militari, carovanieri, avventurieri, schiavi che avevano creato la cultura e la lingua Amazigh di cui lei era una semplice insegnante elementare.

Lei aveva deciso di restare, e di fare la sua parte.

Aveva ripreso da un granaio la vecchia insegna in lamiera della Kasbah Chez Omar e l’aveva tradotta in alfabeto Amazigh, con un pennello nuovissimo in colore giallo vivo sul vecchio sfondo arrugginito e l’aveva messa in alto, sul muro che si stava sciogliendo della vecchia casa dei nonni.