madagascar

Zazie

Stava seduta con una borsa molto ingombrante sul sedile accanto al suo, in un bus che cercava di attraversare il nord del paese facendosi strada fra buche molto più profonde di una persona e canali larghi come torrenti che la forza dell’ultimo tornado aveva lasciato sull’unica strada percorribile tra Antananarivo e Antsiranana, la vecchia Diego Suarez.

Zazie, si era poi presentata con quel nome evidentemente di fantasia, quando il vazaha che le si era seduto a fianco aveva deciso di rompere il silenzio. Zazie stava rientrando dalla capitale, che stava a tre giorni di viaggio più a sud, il ragazzo bianco era salito a metà strada e lei aveva capito che si sarebbe seduto vicino a lei perchè l’unico posto libero del piccolo autobus era quello dove ora stava la sua borsa. Zazie non era particolarmente felice: i bianchi sono un po’ strani, non si capisce cosa pensino e la conversazione di cortesia in francese non era il suo forte, per non parlare dell’inglese che proprio non le piaceva. La grande borsa ingombrante che era riuscita a piazzare sul sedile da quel momento in poi sarebbe finita sulle sue ginocchia, rendendo quel viaggio già terribilmente scomodo ancora più fastidioso.

Qualche settimana prima Zazie aveva finito la sua stagione di raccolta della vaniglia a Sambava assieme ad altre centinaia di giovani che arrivavano da tutto il paese per raccogliere la preziosa vaniglia del Madagascar. Lo faceva ormai da anni per riuscire a mettere da parte qualche aryrary e soprattutto per continuare a potersi prendere cura del suo sogno e continuare a  prendere lezioni di teatro. 

Da qualche anno una coppia di teatranti malgasci era rientrata nella grande isola dopo qualche anno di lavori temporanei e ingaggi nel mondo dello spettacolo in Europa e aveva aperto una scuola di recitazione nel vecchio nucleo coloniale della città: lei era figlia di un francese e di una donna malgascia, lui era cresciuto nel ristorante di famiglia a Fort Dauphin e aveva mosso i primi passi su un palcoscenico proprio nel ristorante di famiglia che offriva ogni sera un piccolo spettacolo di danze locali ai pensionati francesi che andavano a rimpinzarsi di aragoste freschissime e a buon prezzo preparate in modo semplice ma ineccepibile dalla madre. 

La scuola faceva fatica a stare a galla, ma allievi come Zazie erano il motivo per cui i due artisti non avevano ancora abbandonato il progetto. Il progetto era ambizioso, la scuola voleva promuovere la cultura, la danza, l’arte e la drammaturgia del paese. I corsi erano solo in lingua locale e quindi lo erano anche i testi su cui gli allievi lavoravano. Era difficile sopportare la concorrenza di sedicenti insegnanti di yoga, istruttori di zumba e istruttrici di pilates che, stanchi della loro mesta esistenza europea, andavano a dilapidare il piccolo patrimonio familiare nell’isola tropicale, drogando il mercato e attirando molti ragazzi del posto che pensavano che il passaporto per l’occidente passasse anche per un corso di pilates offerto da una giovane e tatuatissima insegnante bionda. 

Assieme ad un ex attore di teatro italiano che guardava alla pensione e ad un ricco francese che voleva ripulirsi la coscienza dopo aver depredato il patrimonio forestale dell’isola qualche anno  prima, i due artisti erano riusciti a farsi finanziare una piccola tournée nel nord del Paese: sei date, per un testo di Michèle Rakotoson.

Luc e Vanessa, avevano però deciso di tenere nascosto l’ingaggio per quella breve tournée fino alla fine della stagione turistica perchè quasi tutti gli allievi della scuola lavoravano nel turismo e non avrebbero avuto tempo di partecipare alle lezioni quando si intensificavano i passaggi delle navi da crociera europee che attraccavano al porto di Diego Suarez vomitando migliaia di persone alla volta. La pausa delle lezioni stava per finire, tra l’inizio del nuovo corso e la prima data c’erano quattro mesi esatti. Mancavano tantissimi piccoli dettagli ma per quelli avrebbero fatto ricorso soprattutto alla benevolenza degli antenati che in Madagascar vedono e provvedono su moltissimi piccoli aspetti della quotidianità.

Il budget però, tenendo conto che una parte di questo avrebbe dovuto sistemare i conti traballanti della scuola,  bastava appena a coprire le spese dei trasporti e degli alloggi per la “compagnia” che più di una compagnia era ancora una allegra combriccola di giovani allievi di teatro capitanati da una coppia di idealisti e cocciuti ex artisti di strada. Fra tutti Zazie era la più battagliera, la più anticonformista: quella che meglio incarnava, senza forse saperlo, lo spirito anti-coloniale del loro progetto.

Per quello avevano deciso di parlarne prima con Lei, che comunque preferiva partire per la raccolta della vaniglia piuttosto che stare a sorridere alle panciute coppie nord europee che scendevano coi sandali, pantaloni a mezzo polpaccio, i colletti della polo alzati e i finti cappelli paglia dalle loro crociere.

Dopo aver saputo della tournée l’entusiasmo, in Zazie, si era tramutato in un pragmatismo tipico di chi per sopravvivere lavora la terra: per gli alloggi tutti avrebbero sfruttato l’immenso numero di cugini e parenti che ogni allievo poteva vantare e che mai si sarebbero rifiutati di ospitare tutta la compagnia per un paio di notti, per i trasporti avrebbero usato i famosi taxi brousse, i vecchi minibus che lentissimi attraversano il paese in tutte le direzioni: la lentezza degli spostamenti non sarebbe stata un problema, durante le lunghissime ore sotto il sole avrebbero ripetuto le parti, facendo sorridere gli altri passeggeri e indispettendo gli autisti che non avrebbero potuto sparare la loro musica a tutto volume. Poco male, era musica orribile, niente da perdere, 

Il vero problema erano i costumi di scena, quello che a Parigi o a Londra si sarebbe risolto in un paio di visite in un mercatino dell’usato in periferia era invece molto difficile ad Antsiranana, piccolo ex porto coloniale nell’estremo nord del Madagascar: il mercato dell’usato che stava a ridosso del porto era ormai poco rifornito e soprattutto pieno anch’esso di vestiti cinesi di seconda mano. Avevano assolutamente bisogno di qualcuno che andasse a Antananarivo, nella capitale, ma l’andata e il ritorno avrebbero preso quasi una settimana, che loro non si potevano permettere alla riapertura della scuola. 

A Zazie era sembrato una sorta di segnale, da tutta l’estate sognava di andare a Tana (cosi anche i malgasci ormai abbreviavano il lungo nome della loro capitale Antananarivo), ma non aveva mai trovato un motivo serio per spendere tutti quei soldi per un biglietto di autobus ne per affrontare il padre che le avrebbe giustamente detto: ”dimmi che buon motivo hai per andare nella capitale”. Si era rassegnata e pensava che lo avrebbe fatto anche lei come tutti i giovani del suo villaggio per andare a chiedere in qualche ambasciata il primo visto per andare a lavorare all’estero, o per andare all’università, ammesso che avrebbe trovato una borsa di studio. A quel punto c’era un’urgenza, doveva assolutamente andarci per salvare il progetto a cui teneva così tanto, non c’era veto paterno o dubbio esistenziale che l’avrebbe fermata: aveva fermato Luc mentre parlava e aveva detto: a Tana vado io, fatemi una lista dei posti dove devo passare a recuperare quello che voi ordinerete e io lo vado a prendere, parto anche domani se serve. 

I giorni ad Antananarivo erano passati velocissimi. La città era davvero immensa, per lei Antsiranana era già una metropoli ma il paragone tra 80 mila abitanti e un milione e settecentomila abitanti era diventato subito realtà quando il bus su cui viaggiava aveva attraversato per quasi due ore una periferia che sapeva di miseria prima di fermarsi all’immensa Gare Routiére. Appena il bus si era fermato anche lei per la prima volta era stata vomitata dal suo bus in un ammasso di piccole botteghe, gente che urlava i nomi di destinazioni sconosciute e brutti ceffi che capivano immediatamente che lei veniva dalla provincia perchè guardava ancora tutti negli occhi e si aspettava che qualcuno le desse una mano. 

In poco tempo le indicazioni di Luc e Vanessa con cui era in contatto costante erano state utili e in un paio d’ore aveva già trovato i vecchi vestiti che con qualche modifica avrebbero fatto al caso loro, avrebbe dormito a casa di una ex collega di Vanessa, e poi il giorno dopo le sarebbe toccato il compito più difficile, trovare qualcosa che potesse assomigliare a delle uniformi francesi degli anni 70. 

Con l’aiuto di Yala, ex ballerina che ora lavorava come impiegata in una agenzia turistica, le vecchie uniformi erano saltate fuori, ma per andarle a prendere era finita nella casa di un eccentrico francese avanti con l’età che viveva tra il Madagascar e la svizzera, erede di una vecchia casata di armatori che si era rifiutata di collaborare con Napoleone III e per quello era stata esiliata in Madagascar diventando l’unica casata nobiliare bianca del regno del Madagascar. Il titolo nobiliare era stato concesso dopo che il suo bisnonno aveva regalato al suo nuovo re una ex nave da guerra della Marina Francese. 

Nella meravigliosa ma ormai malandata residenza del ricco nobile decaduto c’era di tutto, e cercando le uniformi assieme a Yala e a Fifou, (così si faceva chiamare il vecchio al posto di usare i suoi 3 cognomi), a Zazie erano capitate in mano un vecchio paio di scarpe da ballo. Col loro tacco altissimo, erano rosso fuoco, brillanti come un rossetto appena messo, sapevano ancora di vernice. Sperando che nessuno la vedesse, se ne era messa una, scalzando velocemente le scarpette leggere, aveva fatto salire il suo pantalone largo fino quasi al ginocchio solo per vedere che effetto avrebbe fatto quel paio di scarpe sulle sue caviglie. Sapeva che stava sfidando la sorte nel provare a far entrare i suoi piedi abituati a camminare scalzi in un paio di scarpe come quelle ma in realtà calzavano perfette, solo forse il tallone allargato dal camminare scalza si da quando era piccola faceva un po’ di fatica ad entrare. Già a metterne solo una si era sentita una grande artista del palcoscenico, una diva, la sua caviglia andava perfettamente d’accordo con la silouette della scarpa. Il momento di gloria era però durato poco, si era accorta che Fifou aveva visto tutto, e non sapeva come togliersi di impaccio. 

Fifou aveva abbozzato un sorriso ma lo aveva ritirato in un batter d’occhio: non amava farsi vedere troppo morbido, aveva imparato a sue spese che essere troppo amichevoli in un paese in cui tutti lo consideravano fra gli uomini più ricchi dell’Oceano Indiano non era mai una buona idea, aveva quindi fatto un gesto secco a Zazie indicandole con un dito teso e senza alcuna parola il posto in cui erano quelle scarpe e dove avrebbero dovuto tornare all’istante. 

Yala aveva già chiuso il sacco in cui le due uniformi stavano, Fifou non le vendeva, gliele prestava, sarebbe passato lui prima o poi col suo aereo bielica a riprenderle dopo la stagione dei tifoni in una delle sue gite di piacere nel Golfo di Antsiranana. Dopo i convenevoli e si saluti Zazie di apprestava ad uscire dalla grande casa, era così contenta di aver passato qualche giorno nella capitale, di aver visto un altro pezzo di mondo, di essersi per la prima volta sentita adulta. Era cosi assorta nei suoi penesier che di certo non si sarebbe mai aspettata che Fifou la chiamasse, e le dicesse che stava per dimenticare qualcosa. Aveva fatto due passi veso di lei, e con tutta la classe di un ex nobile, le stava porgendo un vecchio sacchetto di stoffa di una qualche famosa sartoria di Parigi, con la lentezza di un prestigiatore aveva appena accennato ad aprirlo e allo stesso tempo le aveva sorriso guardando suggerendole con lo sguardo di guardare dentro a sua volta. 

Quell scarpe erano li nel suo disordine da almeno 30 anni, lui sapeva esattamente dopo quale festa piuttosto dissoluta erano rimaste a casa sua e si ricordava ancora il profumo della giornalista tedesca che smaltita la sbornia era scappata dimenticandole li e per portare però con sè il senso di colpa di una notte brava con un affascinante ex nobile malgascio. 

A lui non sarebbero di certo servite, la giornalista aveva avuto almeno 30 anni per reclamarle, quindi la cosa migliore era farne dono ad una giovane diva, così le aveva detto, leggendole nei pensieri.

Zazie aveva messo tutto il materiale possibile sul tetto del bus che l’avrebbe riaccompagnata nel nord del paese, tranne però le due uniformi che a quel punto non erano solo delle uniformi in prestito ma una specie di tesoro che le era stato affidato da un principe buono assieme ad un regalo inaspettato. 

Sul sedile accanto al suo c’era una borsa con dentro due uniformi e da cui spuntavano due tacchi a spillo rossi con i brillantini e quando il vazaha si era seduto lei sperava con tutta se stessa di non dover averci a che fare. Gli uomini bianchi attaccavano bottone con qualsiasi scusa e la finalità era quasi sempre quella di infilarsi in modo più o meno diretto nelle sue mutandine, spesso però non accettavano il fatto che una bellissima ragazza malgascia non avesse nessuna voglia di avere a che fare con loro, la sua vita era già abbastanza complicata senza doversi raccontare ad un tipo che con la scusa di conoscere di più la cultura del suo paese voleva in realtà sperimentare l’esotismo delle donne della più grande isola del mondo.

Le sue speranze si erano infrante sul primo bonjour stentato che il bianco aveva pronunciato: in quel momento aveva deciso che non gli avrebbe nemmeno detto il suo nome vero, si sarebbe presentata come Zazie, come la monella di quel film strano che aveva visto all’Alliance Française qualche anno prima, e soprattutto vista la serenità che derivava dalle esperienze degli ultimi giorni gli avrebbe detto subito che a lei non piacevano gli uomini che proprio non c’era storia: sarebbe stata la prima persona a cui l’avrebbe detto, cosi, di getto. Più facile dirlo ad uno sconosciuto, aveva pensato, in un europeo poi avrebbe forse provocato una reazione minore, dai social vedeva che se nel suo paese una donna a cui non piacevano gli uomini era ancora un grosso problema in occidente sembrava fosse tutto meno difficile. 

Ecco, aveva deciso, glielo avrebbe detto e poi se lui non fosse stato d’accordo sullo stare seduto accanto a lei per le prossime dieci ore, peggio per lui, avrebbe potuto chiedere all’autista di sedersi sullo strapontino che si usa per chi soffre l’auto.

Il bianco, ignaro della tempesta di proporzioni bibliche che stava nella testa di Zazie dopo il bonjour aveva abbozzato un “je m’appelle…” ma lei aveva risposto seccatamente senza farlo finire, di getto, in piena reazione allergica: Mi chiamo Zazie, non ho voglia di parlare con te e se lo vuoi sapere non mi piacciono gli uomini quindi per piacere non parlarmi, per piacere, ecco, non parlarmi”

La reazione del Vazaha l’aveva stupita, non si era irrigidito, non si era arrabbiato, ma si era sonoramente e sguaiatamente messo a ridere. Tutta la sua tensione, tutte le frustrazioni di essere cresciuta con la paura di uno stigma profondo si erano sgonfiate di colpo su una sonora risata. Quel bianco, che arroganza, aveva riso, Ma come si permetteva, stava ridendo di lei? cioè, questa era una cosa seria!

Dopo aver calmato la sua risata il vazaha si era passato le mani nei capelli e si era accarezzato la barba, aveva capito che la sua risata aveva destabilizzato la giovane vicina di viaggio e aveva semplicemente detto: “Volevo solo sapere dove avevi comprato quelle scarpe coi brillantini sono davvero belle e mi incuriosiva capire cosa mai ci potessi fare, scusami il viaggio è lungo cercavo di renderlo meno noioso. 

Dopo qualche secondo necessario per rielaborare lo spiazzamento Zazie aveva chiuso quel momento di imbarazzo con un lungo sospiro e aveva cominciato a  raccontare tutta la storia delle scarpe rosse. Avevano poi parlato per ore di teatro, della scuola di teatro, di danza, del Madagascar e della vaniglia, nelle soste avevano continuato a parlare fitto fitto senza che nessuno dei due si sentisse in imbarazzo. Scesi dall’autobus non si erano più rivisti, non si erano presentati, lui non le aveva nemmeno detto il suo nome, ma non per maleducazione, se n’erano semplicemente dimenticati. Chissà poi com’era andata la tournée di Zazie e dove saranno poi finite quelle scarpe della giornalista tedesca.