Il portiere del vecchio hotel che sapeva di fumo nel centro storico di Shiraz mi rispose gentile e sornione che c’erano due modi per raggiungere i monti Zagros: se volevo partire a quell’ora del mattino si poteva prendere il taxi che triangolava verso le destinazioni più comuni per gli avventori locali dividendo quindi le spese e mettendoci parecchie ore oppure prendere un taxi diretto che avrei però dovuto pagare per intero e avrei dovuto anche pagare il ritorno a vuoto per il tassista. La prima opzione sarebbe stata la mia preferita se avessi avuto ancora parecchio tempo da passare in Iran, ma il mio biglietto e il mio visto parlavano chiaro: avevo ancora 5 giorni completi nel paese e dovevo comunque raggiungere Teheran che stava a circa novecento kilometri da Shiraz. In mezzo ci stava la possibilità, ottenuta attraverso un contatto di amici in comune, di passare tre giorni interi con una delle ultime tribù nomadi di allevatori di capre nelle montagne che sorgono tra il grande plateau Iraniano e il Golfo Persico.
Dopo vent’anni di portieri d’albergo sornioni e tassisti furbi pensavo che nel momento in cui avrei optato per la seconda opzione avrei dovuto cominciare una sfinente trattativa, cercando di limitare i rischi di essere abbandonato a metà strada e di non finire a pagare il triplo del prezzo reale di quella corsa.
Le variabili però in Iran sono molto meno che altrove, dopo qualche settimana passata a viaggiare da solo in un paese così lontano dagli stereotipi che lo descrivono avevo capito che le relazioni erano basate su una specularità quasi disorientante, se uno parte con educazione e rispetto viene ripagato con la stessa energia a cui viene aggiunto un bonus di ospitalità inaspettato, se invece, per pregiudizi o abitudine si imposta la comunicazione su una qualsiasi forma di prepotenza si viene rimbalzati, all’istante e senza diritto d’appello.
Il portiere, in qualsiasi altro posto in cui sono stato, avrebbe approfittato del mio status di occidentale, e della mia agenda agli sgoccioli, e avrebbe deciso di provarci, avrebbe provato a farmi pagare i suoi vizi per qualche giorno o a ipotizzare qualche regalo da fare alla moglie che sopportava i suoi orari di lavoro strampalati da 30 anni, caricandomi di una tariffa che a me sarebbe sembrata poco amichevole ma che alla fine per fretta avrei pagato ma che per lui avrebbe voluto dire un raddoppio dello stipendio per qualche giorno.
Invece il portiere, con il suo baffo ingiallito dalla nicotina e con le sue mani da pianista in pensione mi aveva solo chiesto se avessi voluto una macchina più o meno confortevole, perché sarebbero state comunque 3-4 ore di curve e polvere in uno dei tantissimi giorni torridi del sud dell’Iran. Quando avevo risposto che una Peugeot Fars come una di quelle che riempiva le strade del paese avrebbe fatto al caso mio mi aveva sorriso e aveva chiosato con un “bene, allora è più facile”.
Pensavo che mi avrebbe liquidato chiedendomi di aspettare nella mia stanza o di prendere l’ennesimo the alla rosa nella hall mentre lui trovava il modo di confezionare la mia fregatura invece aveva già preso il telefono e mi aveva solo fatto cenno con il suo lungo indice educato di attendere.
Dopo uno scambio veloce con qualcuno dall’altra parte del telefono di cui ero riuscito a cogliere solo il nome del villaggio che avrei dovuto raggiungere, con un paio di ripetizioni assertive della stessa parola (che nella mia testa andavano tradotte con: “Non mi chiedere perché questo deve andare li e cosa farà poi li ma deve arrivare in quel posto, ce lo vuoi portare?”) il portiere aveva lentamente riagganciato il telefono, un telefono vero.
C’è un problema, Monsieur, (il portiere parlava un inglese stentato e un perfetto francese d’antan come molti Iraniani formatisi prima degli Ayatollah), era stato il verdetto, c’era un problema, e capivo che era un problema non impossibile da risolvere ma che era necessario che io chiedessi esplicitamente e sorridendo quale fosse il problema, in modo da rendermi complice della marachella che io, il portiere e il tassista stavamo per combinare assieme.
Il problema è che la persona che sarebbe perfetta per accompagnarvi oggi non potrebbe perché mi dice che ha la figlia dodicenne indisposta e che non se la sente di lasciarla a casa da sola per così tante ore.
In questi casi nella manciata di secondi che segue l’esposizione dell’impedimento ci si gioca tutta la giornata o anche tutto un viaggio: se il problema viene rimbalzato dal cliente allora diventa insormontabile, perché la deontologia di un portiere si frappone alla possibilità di trovare una soluzione, non può di certo essere lui a proporre un accrocchio durante lo svolgimento del suo lavoro, se invece il cliente, cioè io, si rende anche in minima parte, complice del misfatto con una comunicazione, di solito non verbale, allora si va veloci verso la soluzione del problema.
Io ho quindi sorriso, e ho accennato un sorridente, “eh bah, alors” aprendo leggermente le mani, che in francese può voler intendere tantissime cose ma difficilmente può essere tradotta con un perentorio: “trova quindi un altro autista che io comincio ad aver fretta”, il portiere ha sorriso e io ho avuto la certezza che il mio taxi sarebbe arrivato in poco tempo.
In poco tempo ho quindi scoperto che la tariffa intera di andata e ritorno era meno di un terzo di quello che io avevo messo come budget massimo per il mio salto nel mondo dei nomadi Qashqai, il che era reso possibile dal fatto che in Iran la benzina ma soprattutto il metano sono venduti a prezzi davvero irrisori, il costo del carburante per quella tratta sarebbe stato di massimo un euro e mezzo e di conseguenza il tassista mi chiedeva davvero pochissimo per quel servizio di 7 ore.
Dopo nemmeno un’ora ero in auto, una Peugeot Fars 406 tinta sabbia con i finestrini spalancati, su una di quelle strade che attraversano in linea retta il deserto e che puntava alle montagne che vent’ anni prima avevo studiato come una delle zone meno abitate dell’Asia centrale. Evidentemente non avevo chiesto se nel prezzo fosse inclusa anche l’aria condizionata ma tutto il resto, quello che avrebbe reso quel viaggio speciale, c’era: un tassista con la faccia sveglia e un sorriso impagabile, sua figlia di dodici anni che secondo me aveva inventato una scusa qualsiasi per non andare a scuola oppure aveva un indisposizione che non teneva il confronto con l’avere seduto nella macchina di suo padre un tipo con la faccia da iraniano, ma decisamente occidentale, con cui parlare in inglese per più di tre ore potendo tradurre solo come voleva lei la conversazione al padre che invece non parlava nessuna lingua oltre al Farsi.
La strada disegnata col righello fra le poche coltivazioni di pistacchio e i canali di irrigazione ad un certo punto cominciava ad inerpicarsi sulle montagne e la noia che arriva da un finestrino che proietta sempre la stessa immagine per ore veniva velocemente sostituita dalla sorpresa delle prime montagne colorate che cominciavano a farsi più vicine. L’orologio però era impietoso, non eravamo che ad un terzo del viaggio, la parte di strada tortuosa iniziava solo ora, e sapevo che ci aspettava un passo piuttosto ripido stando a vedere il numero di pieghe a gomito che la linea blu faceva sullo schermo del telefono.
Appena cominciate le prime curve la mia nuova amica aveva forse perso l’entusiasmo per lo straniero e sicuramente si era fatta vincere dai consigli del padre che le aveva chiesto di tornare sul sedile davanti per evitare il suo solito mal d’auto, io mi ero fatto più silenzioso e mi godevo quelle rocce che sembravano un oceano di pietra in cui le sfumature del blu marino si erano trasformate in una paletta di colori tra l’ocra, il rosso e le tinte della sabbia. Continuavo, come ogni volta in cui verco le soglie di un territorio così aspro e poco adatto alla vita umana, a stupirmi come quelle potessero essere le porte del territorio di una antica tribù di pastori nomadi, a perdita d’occhio attorno a me non c’era che qualche puntino di un verde scuro o di qualche verde metallico, quelle tinte che sanno di arbusti con foglie poco appetitose e invalicabili spine.
I finestrini che per tutto il viaggio erano rimasti quasi spalancati cominciavano a chiudersi, stavamo salendo di quota veloci e io mi immaginavo che, come per un imprinting che viene dalle nostre origini comuni di camminatori, che anche questo autista si sarebbe fermato in cima al passo come avrebbero fatto i nostri antenati per riposarsi, o per far riposare le bestie da soma, pensavo che lui lo avrebbe fatto senza nemmeno spegnere l’auto, come si usa, per il minimo tempo di una sigaretta, o per dare il tempo a tutti di sparire dietro un sasso e annaffiare uno di quegli arbusti spinosi, ma invece a poche centinaia di metri dal passo che io ogni tanto controllavo sullo schermo del telefono si era rivolto alla figlia, avevano parlottato un po’ e poi lei si era rivolta a me con la serietà di un traduttore ufficiale di un meeting per il disarmo in Medio Oriente.
“Quello che stiamo per passare è uno dei posti preferiti di mio padre, vorrebbe fermarsi qualche minuto e fare colazione, if it is cool for you” e con quel cool aveva perso l’aplomb del interprete simultaneo e mi aveva fatto capire che lei voleva fermarsi. “E’ tanto che non passa di qui, ci sono pochi turisti ultimamente, non passa da queste parti da un bel po’”.
Per me andava bene, avevo voglia di fermarmi, di fare qualche passo, di sentire l’aria appuntita delle montagne che stanno davanti al deserto. Per me andava bene eccome, mi immaginavo che io sarei sceso avrei fumato facendo qualche passo e qualche foto e che loro, seguendo la regola che per la maggior parte dei casi vuole che le guide, gli autisti, gli accompagnatori si godano la propria pausa senza i clienti, sarebbero spariti dentro un bugigattolo da cui usciva l’odore di the, di polvere e di fritto.
Dopo pochi metri invece, finiva la salita, e come in un montaggio di pellicole fatto malissimo dalla tinta sabbia tutto era virato al verde chiaro, di colpo, senza preavvisi, c’era tutta la desolazione di un passo di montagna sperso nel nulla, c’erano le carcasse di camion che avevano reso la loro anima all’asfalto qualche decennio prima, c’erano i resti di qualche baraccamento militare, c’era un’antenna del telefono, ma c’era anche tutto attorno a noi una corona di striature marroni e di creste affilate che proteggevano un piccolo scrigno verde chiaro tagliato solo dalla striscia di asfalto che scendeva dal lato opposto a quello che avevamo salito noi. Pochissima acqua, in un luogo in cui è scarsa, a volte, fa dei veri miracoli nel paesaggio.
Quello che mancava era il bugigattolo al gusto fritto e polvere, mancava, come in altri posti dell’Iran un presidio umano, in un paese così grande e così vuoto, anche la certezza che in un passo di montagna ci sia un bar o quello che più può assomigliare ad un bar non c’era. Non capivo quindi come quel “ ci fermiamo a fare colazione” potesse diventare realtà, il tassita era arrivato in giacca e cravatta, l’auto era vecchia ma linda, profumata, la mia nuova amica dodicenne era curata come una piccola principessa, non mi pareva possibile che si sarebbero fermati a far colazione in piedi a bordo strada con uno snack in plastica al gusto surrogato di cacao e finto cocco.
Una volta scesi, mi ero riguardato attorno, e avevo deciso di rompere quella specie di breve stallo facendo segno a lui che avrei cercato un arbusto da irrigare, lui, mi aveva indicato la sua destra, e con gli occhi mi aveva fatto capire che dovevo scavalcare quel masso li in fondo come mi stesse indicando la toilette degli uomini in un hotel di lusso, stessa eleganza, stessa nonchalace, uno scambio di intese fra gentiluomini.
Al ritorno dalla mia passeggiatina fino al masso, con lo sguardo di chi ha fatto una buona azione per l’arbusto spinoso però c’era la sorpresa che non aspettavo, la sorpresa che avrebbe cambiato la mia percezione del mio soggiorno in Iran e forse della mia già meravigliosa opinione sulla gente di quel paese.
L’auto non era più sul bordo della strada, ma era stata parcheggiata in retromarcia fino a sfiorare l’erbetta dello scrigno verde, e dall’auto era uscito un tappeto, due thermos, e un cesto con dentro dei piatti coperti da un tesissimo strato di pellicola trasparente.
Il mio borsone, che era l’unica cosa sporca presente in quell’auto era finito nel bagagliaio al mattino non per mano mia, il tassista lo aveva preso e lo aveva infilato nel retro del taxi in velocità davanti all’hotel, e quindi io non avevo visto che altro ci fosse nel bagagliaio.
Era nel bagagliaio accanto al mio borsone lercio che c’era il presidio umano che io andavo cercando poco prima: tutto quello che serviva per fare una colazione da signori era avvolto in un tappeto pulito, tutto era a prova di sabbia, ogni cosa era avvolta nella pellicola, e i piatti ricamati erano pieni di frutta già sbucciata. Nelle due caraffe termiche del the bollente e del doogh freddissimo, nello straccio di cotone grezzo del pane cotto poche ore prima, in un vaso di latta dei datteri neri come la pece e in una boccetta di metallo col tappo a vite dell’olio di oliva.
Avevo esitato avvicinandomi, cercavo di contare i piatti e di scansionare lo spazio libero sul tappeto per capire, da incallito occidentale, se io sarei stato invitato alla celebrazione di quel piccolo rito familiare, non era certo, ero in uno dei paesi più ospitali del mondo per antonomasia ma nessuno per ora mi aveva ancora invitato e nessuno in realtà era tenuto a farlo, ero un cliente di un taxi, niente di più. Mi avvicinavo quindi dissimulando la sorpresa e la commozione per ritrovare tutta quella semplice perfezione in un tappeto steso dietro ad una vecchia Peugeot in un passo di montagna dei Monti Zagros, quando la piccola principessa indisposta mi aveva fatto un sorriso chiedendomi se volevo prima il the o prima il doogh.
L’ospitalità, quella autentica e non romanzata, era su quel tappeto, srotolata davanti a me senza effetti speciali, nelle tinte di una quotidianità quasi banale.
Il tassista avrebbe potuto tranquillamente non invitarmi, non era un invito fatto a me poiché persona conosciuta e speciale, i piatti nel cesto della colazione con la frutta già sbucciata e coperti con la pellicola erano tre fin dalla partenza.
I tre giorni successivi, con i nomadi allevatori di capre che vivevano in meno di quattrocento, suddivisi in piccoli clan familiari in un territorio grande come una provincia italiana, erano stati speciali, la quotidianità di una famiglia che segue le stagioni e che ripercorre gli stessi sentieri da centinaia di anni erano stati un’esperienza davvero interessante soprattutto quando il capo famiglia mi aveva accolto con un fucile da guerra in mano e sorridendomi mi aveva detto in un inglese tutto suo “qui viviamo io, mia moglie, i miei due figli, le mie quattrocento capre, i miei otto cani e circa una trentina di lupi, il fucile è per loro ma di solito arrivano dopo cena e you will see non ci faranno dormire”
Era una frase ad effetto, l’aveva detta con la semplicità di un uomo di quasi settant’anni che era adulto da sempre, di un pastore che si era sposato a dodici anni e che nel letto da quel giorno di cinquant’otto anni prima aveva la stessa moglie e lo stesso fucile da caccia; era la verità: non avrei chiuso occhio per le tre notti successive, ma, lo avevo capito subito, era una frase che aveva ripetuto più volte, per quanto io fossi stato mandato li da amici di amici, ero un ospite pagante.
Il tassista invece, quando dopo il consueto imbarazzo per un invito totalmente inaspettato, mi ero finalmente seduto a gambe incrociate sul suo tappeto, mi aveva rivolto per la prima volta la parola senza passare per la traduzione della figlia, mi aveva guardato negli occhi dicendomi semplicemente “no Toroof” mi aveva passato la mia tazza di Doogh e ritraendo la mano le aveva fatto fare quel semicerchio con la mano rovesciata che in tutto il mondo vuole dire: “serviti, è tutto fresco e buono” non c’era null’altro da aggiungere.
Per capire però cosa voglia dire un “no Toroof” detto in quel contesto e in quel modo non c’è racconto che tenga, dovreste passare qualche settimana con gli Iraniani, in Iran o in qualsiasi comunità che essi abbiano creato in ogni angolo del mondo, scacciati da una diaspora creata negli ultimi quarantacinque anni da un regime teocratico, ottuso, violento e arrogante.